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L’onere della prova nel licenziamento per giusta causa

Il datore di lavoro può recedere unilateralmente dal rapporto con un dipendente per motivi disciplinari che configurano una giusta causa di licenziamento: la gravità della condotta e la proporzionalità della sanzione devono essere provate dal soggetto che dispone il provvedimento.

Tra i motivi per cui un lavoratore può essere legittimamente licenziato, la giusta causa determina il recesso unilaterale del datore di lavoro in conseguenza di una condotta talmente grave da non consentire la prosecuzione - anche provvisoria - del rapporto, ai sensi dell’art. 2119 del Codice civile.

In particolare, il licenziamento per giusta causa rientra nella casistica del recesso per motivi disciplinari, insieme al giustificato motivo soggettivo, in quanto conseguente ad uno o più comportamenti del dipendente idonei a minare il vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro.

Non potendo essere disposto per motivi di carattere discriminatorio, razziale, politico o religioso, la legittimità di un licenziamento per giusta causa dipende dalla presenza di taluni elementi, tra cui la gravità della condotta posta in essere dal lavoratore e la necessaria proporzionalità tra la sanzione disposta e i fatti contestati, oltre all’accertamento della concreta ricorrenza degli stessi. 

Nell’ambito di una controversia giudiziale, ex art. 2697 c.c., l’onere della prova in merito alla fondatezza dei motivi posti alla base di un licenziamento per giusta causa grava sul datore di lavoro. Analizziamo la casistica relativa alle più frequenti condotte che giustificano tale licenziamento disciplinare e la relativa disciplina in ambito probatorio.  

 

La gravità della condotta e il vincolo fiduciario

Tra i presupposti necessari a legittimare la disposizione di un licenziamento per giusta causa, la gravità della condotta posta in essere dal lavoratore è tale da non consentire la prosecuzione - nemmeno provvisoria - del rapporto di lavoro quando sussiste sia oggettivamente, intesa come fondamento dell'illecito comportamentale, sia da un punto di vista soggettivo, dal momento che si rende necessaria anche una valutazione specifica circa la qualità e il vincolo fiduciario alla base del rapporto lavorativo.

Qualora risulti oggettivamente e soggettivamente idonea a ledere in maniera irreparabile l’elemento fiduciario a fondamento del rapporto, la condotta del lavoratore legittima il recesso unilaterale del datore per giusta causa[1].

Attestata la gravità della condotta nel contesto del fatto concreto e, di conseguenza, l’idoneità della stessa a minare in modo irreparabile il vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro, risulta irrilevante che il pregiudizio economico subito dal datore di lavoro a causa della condotta del dipendente sia assente o di modesta entità[2].

I comportamenti del lavoratore che risultano idonei a legittimare un licenziamento per giusta causa si configurano come lesivi degli obblighi legali e contrattuali assunti dallo stesso nei confronti del datore di lavoro. Tuttavia, anche le condotte assunte al di fuori dal contesto lavorativo e che esulano dalle obbligazioni contrattuali possono legittimare il licenziamento per giusta causa, a condizione che la gravità o il disvalore sociale delle stesse risultino comunque idonei a minare il vincolo fiduciario alla base del rapporto lavorativo[3].

Inoltre, secondo la Suprema Corte, anche un comportamento di natura colposa, in presenza di determinate caratteristiche e al convergere degli altri elementi della fattispecie in esame, può risultare idoneo a determinare una lesione del vincolo fiduciario, tale da non consentire l'ulteriore prosecuzione – anche provvisoria - del rapporto[4].

La casistica relativa alle condotte che giustificano il licenziamento per giusta causa non è tassativa, dal momento che i CCNL di categoria possono autonomamente disciplinare talune specifiche cause non vincolanti: tuttavia, i motivi più comuni che legittimano il recesso unilaterale del datore di lavoro sono:

 

L’onere probatorio

L’art. 5 della l. n. 604/1966, in accordo con quanto previsto dall’art. 2697 c.c., pone l'onere della prova in relazione alla sussistenza della giusta causa - o del giustificato motivo - di licenziamento a carico del datore di lavoro. Stante la gravità delle condotte che legittimano la disposizione del provvedimento in esame, tale onere comporta che il datore di lavoro fornisca prova certa di tutti gli elementi della fattispecie, dal momento che il nostro ordinamento non prevede la possibilità di disporre un licenziamento per giusta causa fondato esclusivamente su prove indiziarie non adeguatamente verificate[5].                                                                               

Di conseguenza, risulta evidente che non è il lavoratore a doversi far carico di dimostrare l’insussistenza del fatto, dal momento che tale prospettazione sarebbe in contrasto con le norme sopracitate: sarà eventualmente il Giudice di merito, dando conto del procedimento logico su cui fonda la propria decisione e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, a valutare l’entità dell’inadempimento, nonché la gravità della condotta e l’incidenza sul vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro.

Qualora il licenziamento per giusta causa sia stato intimato al lavoratore in conseguenza di diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, ciascuno di essi, autonomamente considerato, può costituire motivo sufficiente a legittimare il recesso unilaterale del datore di lavoro.

In tal caso, spetta al lavoratore l’onere di provare che gli episodi contestati sono tali da non consentire la prosecuzione - nemmeno provvisoria - del rapporto di lavoro solo se presi in considerazione congiuntamente e in virtù della gravità complessiva che li caratterizza: in assenza di argomentazioni e prove in tal senso, ciascun episodio, autonomamente considerato, tanto grave da minare il vincolo fiduciario a fondamento del rapporto di lavoro, può legittimare il licenziamento per giusta causa[6].

A pena d’inefficacia, il licenziamento deve essere comunicato in forma scritta al lavoratore, indipendentemente dalle dimensioni aziendali e a prescindere dall’inquadramento contrattuale del lavoratore interessato.

Il datore di lavoro che intende disporre tale provvedimento disciplinare deve tempestivamente trasmettere al dipendente la lettera di contestazione, all’interno della quale devono essere elencati i motivi posti alla base del licenziamento per motivi disciplinari.

In ordine al fatto costitutivo del recesso, il lavoratore interessato potrà decidere se limitarsi a contestare genericamente il provvedimento espulsivo, mediante considerazioni di puro diritto, confidando nella mancata - o solo parziale - dimostrazione dei fatti ad opera della controparte, ovvero introdurre in giudizio e provare specifiche circostanze contrarie alla ricostruzione datoriale e tali da evidenziare la sua innocenza rispetto agli addebiti lui ascritti.

Qualora lo ritenga illegittimo, il lavoratore può impugnare il provvedimento che dispone il licenziamento disciplinare entro 60 giorni dalla comunicazione, pena la decadenza di tale diritto, avendo inoltre la facoltà di presentare ricorso presso il Tribunale del Lavoro competente entro i 180 giorni successivi.

AutoreDr.ssa Katia Trevisan
Responsabile Divisione Legale Dogma S.p.A.

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