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Licenziamento per uso improprio dei beni aziendali

In questi anni abbiamo assistito alla pronuncia di numerose sentenze in tema di licenziamento per uso improprio dei beni aziendali. Vediamo insieme alcune decisioni della Cassazione in merito a questo tema.

Le sentenze della Cassazione

La Suprema Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza n. 15777/2019, ha statuito la legittimità del licenziamento per giusta causa del dipendente che effettua rifornimenti di carburante dell’autovettura aziendale con la carta di credito aziendale a lui assegnata, oltre ed al di fuori delle esigenze lavorative, addebitando pertanto i relativi costi alla società.

L’anno precedente, invece, la Cassazione con sentenza n. 7208/2018, aveva ritenuto di escludere la sussistenza della giusta causa poiché, nel caso di specie, il lavoratore aveva utilizzato l’auto aziendale, pur essendo ufficialmente assente dal servizio, per un numero limitato di occasioni e per cause in qualche modo connesse all’attività lavorativa. In particolare aveva utilizzato la vettura per fare rifornimento per i giorni successivi in cui avrebbe dovuto svolgere la propria attività lavorativa, per ritirare un certificato medico da depositare in azienda e per recarsi da un cliente di sabato.

Quando il lavoratore che fa un uso personale dell’auto aziendale: rischia il licenziamento? Il lavoratore può incorrere nel licenziamento per giusta causa soltanto laddove la sua condotta ecceda le finalità per le quali l'auto aziendale (ad esempio se utilizza il mezzo per andare in vacanza o a fare delle commissioni) è stato concesso e se i limiti all’uso sono espressamente previsti dal codice aziendale.

Ancora.

Nello stesso anno la Corte di Cassazione, con sentenza n. 13269/2018, ha dichiarato legittimo il licenziamento del dipendente a seguito della falsa attestazione della presenza in ufficio attraverso la timbratura del badge identificativo ad opera di una terza persona poiché tale condotta, oltre ad integrare la fattispecie penalmente rilevante del reato di tentata truffa, implica la violazione dei doveri derivanti dal vincolo di subordinazione ed è pertanto stata ritenuta idonea a ledere il rapporto fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro.

La Cassazione ha inoltre dichiarato la legittimità del licenziamento del lavoratore che conservi sul computer aziendale files strettamente personali di contenuto pornografico (Cass. civ., Sez. Lav., 22313/2016). Gli Ermellini, infatti, contrariamente a quanto affermato dai giudici di merito, hanno ritenuto che non vi fosse violazione della privacy del lavoratore. Secondo i Giudici di legittimità, il datore di lavoro può effettuare controlli mirati finalizzati ad accertare il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro, come ad esempio i computer aziendali, purché l’esercizio di tale diritto avvenga nel pieno rispetto della libertà e della dignità dei lavatori, nonché della normativa in materia di protezione dei dati personale, dei principi di correttezza, pertinenza e non eccedenza.

Nel caso di specie, i giudici hanno ritenuto di censurare il comportamento del dipendente la cui condotta aveva esposto la banca ai rischi conseguenti l’acquisizione, sul proprio sistema informatico, di files che potevano comportare un coinvolgimento della stessa ai sensi del d. lgs. 231/2001.

In tal senso si è nuovamente pronunciata la Cassazione, con sentenza n.13266/2018, statuendo che, in tema di licenziamento, va esclusa la violazione delle garanzie sui controlli a distanza qualora il datore di lavoro, con verifica informatica ex post, a seguito di autorizzazione scritta da parte del lavoratore, ponga in essere un controllo con l’esclusivo fine di accertare specifiche mancanze del lavoratore nell’utilizzo del computer aziendale per finalità extralavorative.

Tali controlli, secondo la Corte, prescinderebbero dalla mera sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa in quanto diretti a verificare l’esistenza di comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale. Nel caso di specie le verifiche sui dati relativi alla navigazione internet, infatti, erano state disposte dopo che il dipendente era stato sorpreso ad utilizzare abitualmente il computer aziendale per giocare ad un solitario di carte online.

In una recente pronuncia, nel giugno 2020, la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 10540/2020, ha dichiarato la legittimità del licenziamento del lavoratore che ha reiteratamente fatto uso del telepass aziendale per esigenze personali al di fuori dell’orario lavorativo. Tale condotta, in aggiunta a comprovate mancanze nello svolgimento della propria attività lavorativa, è idonea a ledere l’elemento fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro e necessario per la sua prosecuzione; pertanto la stessa ben può integrare gli estremi della giusta causa di licenziamento.

Relativamente all’uso indebito di mezzi aziendali, la Cassazione, con sentenza n. 3315/2018, ha affermato che la particolare situazione di fragilità psicologica del lavoratore non legittima l’utilizzo improprio dei beni aziendali, come ad esempio il telefono, per finalità personali e con conseguente grave danno economico per la società datrice di lavoro. L’uso improprio di tali beni, infatti, è contrario ai canoni di correttezza e buona fede posti alla base del rapporto di lavoro.

Nel caso di specie, il lavoratore era stato licenziato per giusta causa per aver illecitamente utilizzato il telefono aziendale per scopi personali, generando un costo a carico dell’azienda di oltre 8.000 euro. Il giudice di primo grado aveva convertito il provvedimento disciplinare in licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Contro tale pronuncia il dipendente aveva proposto appello sostenendo che l’uso improprio del telefono aziendale era dovuto ad uno stato di depressione in cui lo stesso versava.

La Corte d’Appello ha tuttavia rigettato il ricorso ritenendo che tale stato depressivo non giustificasse un comportamento illecito così grave tenendo conto, oltre che del danno economico causato all’azienda, anche del tempo sottratto al regolare svolgimento dell’attività lavorativa. La Cassazione, rigettando il ricorso, ha ribadito che lo stato di sofferenza psicologica non costituisce una causa idonea a giustificare il ripetuto uso illecito del mezzo aziendale per fini personali che comporta un rilevante danno per il datore di lavoro.

Come si evince dalle citate pronunce giurisprudenziali, in tema di licenziamento per uso improprio dei beni aziendali, è compito del giudice valutare nel caso concreto la gravità dei fatti contestati al lavoratore nonché la proporzionalità tra gli stessi e la sanzione comminata, al fine di accertare se la compromissione del rapporto fiduciario sia tale da giustificare l’applicazione della massima sanzione disciplinare.

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Quando scatta il licenziamento per giusta causa?

Il licenziamento per giusta causa, disciplinato dall’art. 2119 c.c., è la forma più grave di licenziamento e viene comminato qualora vi sia un grave inadempimento da parte del lavoratore, tale da non consentire, neanche in via provvisoria, la prosecuzione del rapporto di lavoro. In tale ipotesi, infatti, la condotta del lavoratore è così grave da determinare il venir meno dell’elemento fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro.

Pertanto in estrema sintesi, gli elementi distintivi del licenziamento per giusta causa sono:

Altre ipotesi di licenziamento sono:

Vediamole brevemente.

Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, anch’esso licenziamento di tipo disciplinare, è comminato qualora vi sia un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore. Pertanto il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, rispetto al licenziamento per giusta causa, viene applicato nei casi di minore gravità e deve essere intimato con preavviso.

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è la fattispecie in cui un datore di lavoro, nella piena libertà di organizzare i mezzi della produzione, può licenziare un proprio dipendente nel caso in cui si verifichi una delle seguenti situazioni: crisi del settore, eliminazione di un posto di lavoro, cessazione dell’attività aziendale, esternalizzazione di un servizio, eliminazione di un reparto, calo del fatturato. La legge 604/1966 fissa i requisiti procedurali e stabilisce i limiti del licenziamento per giustificato motivo oggettivo ma non specifica i casi nei quali il datore può adottare questo provvedimento. È stata quindi la giurisprudenza, negli anni e con diverse pronunce, a fare luce sulle condizioni che aprono la strada alla possibilità di licenziare un dipendente per giustificato motivo oggettivo.

Scopri di più sul licenziamneto per giusta causa nella sezione dedicata.

AutoreDr.ssa Katia Trevisan

 

1 CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 giugno 2019, n. 16598

 

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